Traggo da "Il nostro Paese", n. 328, aprile-giugno 2016, questo bellissimo e profondissimo articolo dello scrittore Carlo Zanda (autore del bellissimo libro su Hesse "Un bel posticino") che contiene le motivazioni profonde a sostegno della difesa di quanto rimane di Casa Rossa e suo Parco a Montagnola.
Tiziano
Hermann Hesse e la Casa Rossa di Carlo Zanda
Era la primavera del 1919 quando Hermann Hesse, ricoverata la moglie in una clinica psichiatrica e affidati i figli alle cure di amici generosi, lasciò Berna, dove aveva lavorato durante la guerra, e arrivò in Ticino per ricominciare daccapo. Era, allora, un uomo cui mancava tutto: famiglia, salute, denaro, un tetto. Trovò una casa a Montagnola.
Anni dopo, ne abitò un’altra, con caratteristiche molto differenti. Se ambedue queste case sono ricordate come importanti nella sua biografia è perché, ognuna a suo modo per quarantatré anni, fornirono la perfetta cornice al suo travaglio esistenziale, finendo perfino con l’assomigliargli.
Fu senz’altro una fortuna trovare Casa Camuzzi, in primo luogo perché poteva permettersela. Il prezzo era accessibile e inoltre disponeva di un rigoglioso giardino proprio sotto il terrazzino dello studio. Qui Hesse ritrovò l’ispirazione necessaria alla sua attività di scrittore. D’estate, la casa diventava la base perfetta da cui muovere per girovagare nei boschi; d’inverno, la mancanza di riscaldamento, per via dei suoi malanni alle
ossa, imponeva la fuga e la ricerca di tepore in attrezzate stazioni termali o nelle calde abitazioni di amici ospitali.
I bizzarri e fantasiosi fregi che il proprietario-progettista del palazzetto, l’architetto Agostino Camuzzi, aveva voluto sulla facciata si intonavano bene con il carattere nomade e inquieto di Hesse. Quelle stanze lo videro stringere amicizia con il mistico Hugo Ball, sposarsi (un breve matrimonio) con la giovane Ruth Wenger, dedicarsi agli amati acquerelli, scrivere alcune delle sue opere maggiori tra cui Klein e Wagner, L’ultima estate
di Klingsor, il sempreverde Siddharta, Narciso e Boccadoro, Il lupo della steppa.
Nell’estate del 1931 Hesse si trasferì nella seconda casa importante del suo soggiorno a Montagnola, chiamata Casa Rossa per via del colore (di allora) dei muri esterni. Un doppio colpo di fortuna, questa volta: perché si trattava del regalo di un amico facoltoso e perché fu costruita secondo un progetto da lui deciso assieme alla nuova moglie, Ninon Ausländer, sulla base di precise esigenze: spazi interni organizzati in modo da conciliare matrimonio e indipendenza reciproca; un ampio giardino in cui coltivare alberi e piante, la passione di sempre; uno studio al piano terra per l’altra grande passione, la pittura; possibilità di ospitare figli, nipoti e amici che con regolarità cominciarono a far visita all’ «eremita» di Montagnola. Infine, finalmente, un confortevole sistema di riscaldamento. La Casa Rossa sin dall’inizio consentì a Hesse di condurre un’esistenza completamente nuova, contribuendo non poco a fare di lui un uomo meno irrequieto e più abitudinario, sedentario, con maggior tempo a disposizione per leggere, scrivere, curare la corrispondenza, meditare.
Gli diede quella stabilità che non aveva mai posseduto e, come già era avvenuto con Casa Camuzzi, corrispose perfettamente alle sue necessità, permettendogli di vivere il più lungo e solido rapporto sentimentale della sua vita. Man mano che la sua fama cresceva, la Casa Rossa diventò sempre di più luogo di incontro con l’aristocrazia della cultura europea: Thomas Mann, Max Brod, Karl Kerény, Herbert Marcuse, Andrè Gide, Romain Rolland, Suzanne Debruge, Martin Buber, Max Picard, Bernard von Brentano, Bertold Brecht, Max Frisch, Peter Suhrkamp. I libri, la politica, la vita erano i temi delle conversazioni che frequentemente lo impegnavano con i suoi illustri visitatori in biblioteca o nel giardino.
Ma l’avvento di Hitler al potere e poi la guerra cambiarono tutto, in Europa e nella sua vita. Osteggiato dal nazismo e nell’impossibilità di riscuotere i proventi dei sui libri, la stanzialità per Hesse, prima ancora che una scelta, divenne una necessità. Una situazione nuova nella quale anche la Casa Rossa fu chiamata a svolgere
un ruolo attivo: divenne una casa-rifugio per gli amici ebrei e gli intellettuali politici perseguitati, attrezzandosi a svolgere la funzione di centro di accoglienza, quasi una sede distaccata della Croce Rossa internazionale, dove Hermann e sua moglie preparavano documenti utili all’espatrio, tenevano i rapporti con le ambasciate, procuravano fondi e ospitalità. Dirà Clemente Molo, l’ultimo, il più intimo dei medici di Hesse: la Casa Rossa si trasformò in «un faro che attraeva i dispersi, gli esuli, i diseredati». «Chiunque cercasse una parola-guida, una frase o un incitamento a proseguire la strada faticosamente intrapresa», guardava inevitabilmente a Montagnola, «si recava da Hesse, scriveva a Hesse, ne attendeva fiducioso la risposta e continuava ad essergli grato per tutta la via».
Nell’autunno del 1943 Hesse pubblicò, presso un editore zurighese, l’unico libro importante non scritto in Casa Camuzzi, Il giuoco delle perle di vetro. Poi, un anno e mezzo dopo la fine della guerra, arrivò il Nobel per la letteratura e la Casa Rossa fu inondata da tanti di quei regali e messaggi di congratulazioni da ogni parte
del mondo che finalmente anche la gente della ignara Montagnola capì chi era quell’eccentrico e un po’ burbero signore col cappello di paglia e la salopette che da un quarto di secolo abitava ai margini del villaggio.
Da allora, se possibile, la Casa Rossa acquistò per Hesse una importanza ancora maggiore, divenne la sua tana, il fortino al riparo del quale tentò di difendersi dagli assalti degli ammiratori in cerca di una foto-ricordo o di un consiglio letterario.
Accanto alla porta del suo appartamento appese la citazione di un saggio cinese che invitava a rispettare la solitudine di un uomo che stava preparandosi a morire: «Quanto ora gli serve è la pace. Non è elegante cercarlo, volergli parlare, tediarlo con pettegolezzi. Conviene passare davanti alla sua abitazione come non vi
abitasse nessuno».
Divenne ancora più prezioso il giardino, dove gli alberi e le piante divennero i principali interlocutori delle sue riflessioni. Su ciò che, non soltanto i cittadini tedeschi, ma tutti gli uomini, avrebbero dovuto imparare dall’immane tragedia della guerra da poco conclusa: solidarietà, giustizia, responsabilità individuale. E sul suo personale destino: gli ultimi versi, quelli della poesia Il ramo spezzato, li corresse per l’ultima volta prima
di addormentarsi, al termine di una giornata in cui, camminando in giardino con Ninon, si era immedesimato nel vecchio ramo di una robinia, dondolante e dolente, ma non ancora del tutto arreso.
Era la notte dell’8 agosto del 1962. La mattina dopo, nel sonno, Hesse lasciò per sempre il mondo.
Perché difenderla
Due sono quindi le ragioni – una che riguarda la sfera più personale della vita di Hesse, l’altra che attiene al ruolo pubblico di intellettuale impegnato – che militano a favore della tutela della Casa Rossa e del suo giardino come beni degni di tutela nell’interesse generale.
La prima, la più ovvia, è che Hesse nella Casa Rossa visse trentadue anni, i due terzi del suo soggiorno in Ticino, e anche se oggi è molto cambiata resta una tappa fondamentale per chiunque sia interessato a ripercorrere, a Montagnola, i luoghi di uno degli scrittori più amati del Novecento, ancora oggi il più letto grazie a Siddharta. E fu importante, la Casa Rossa, perché lo aiutò ad elaborare una visione della vita improntata alla accettazione del tempo che passa, della malattia e del rispetto della natura che resta uno dei suoi lasciti più alti nell’età matura.
Il giardino, in particolare, fu decisivo. Hesse equiparava la cura degli alberi e delle piante alla lettura di un libro o all’ascolto della musica. Serviva a concentrarsi, diceva, alla «tessitura dei fili della fantasia». Confidò al figlio Bruno che buona parte del Giuoco delle perle di vetro, l’opera che gli valse il Nobel, era nata proprio strappando le erbacce nel giardino della Casa Rossa. Cancellarne la memoria sarebbe come rimuovere dalla biografia di Marcel Proust Illiers, il paesino della sua infanzia con cui si apre la Recherche; oppure cancellare la Finca Vigia, la tenuta cubana ora trasformata in museo, da quella di Ernest Hemingway.
La seconda ragione è che la Casa Rossa, nell’Europa di oggi sempre più divisa e pericolosamente tentata dal ritorno ai vecchi confini nazionali, può essere vista come il simbolo dell’adesione a un sistema di valori – in primo luogo l’antinazionalismo e la solidarietà – che appare come l’unico in grado di dare una speranza al Vecchio Continente. Se infatti Casa Camuzzi fu il luogo della ritrovata creatività letteraria, la Casa Rossa fu, per Hesse, diventato cittadino elvetico nel 1924, il luogo dell’impegno civile a favore dei perseguitati e contro i totalitarismi, nel solco della più illustre tradizione della Svizzera. Hesse fu un uomo coerente che per coerenza rinunciò agli agi del successo. E seppe essere impopolare quando, alla caduta del nazismo, non si stancò
di censurare l’opportunismo dei suoi ex compatrioti dinanzi all’ascesa di Hitler, pretendendone una piena ammissione di responsabilità. Del resto questa fu anche la motivazione che nel 1946 lo condusse al Nobel: «… un uomo buono, che ha lottato, che segue con una fedeltà esemplare la sua vocazione e che è riuscito a tenere alta la bandiera dell’umanità in un’epoca tragica».