L'anno scorso in uno scaffale di una libreria di una città italiana mi è capitato un incontro straordinario: la mia attenzione fu richiamata da un piccolo libro dalla copertina verde e dal titolo intrigante: E il giardino creò l'uomo - Un manifesto ribelle e sentimentale per filosofi giardinieri. Le sue pagine mi hanno preso come, a suo tempo, quelle di un filosofo italiano e quelle di un poeta svizzero francese al quale è stata dedicata una bella mostra a Casa Croci, qui a Mendrisio.
L'arch. Marco Martella, autore del libro, è storico dei giardini e lavora in Francia, presso la Vallée-aux-Loups (Châtenay-Malabry dans les Hauts-de-Seine), dove visse François-René de Chateaubriand dal 1807 al 1818, un'area protetta come monumento storico dallo Stato. Merita una visita l'insieme e in particolare l'île verte - potreste leggervi E il giaridno creò l'uomo - e l'arboretum (di cui pubblicherò fra qualche tempo alcune fotografie di un albero straordinario).
A proposito del suo E il giardino creò l'uomo gli abbiamo posto alcune domande. Eccovi l'intervista che pubblichiamo con immenso piacere perché vibrante di passione civile e cultura (vera, non quella che ci sdoganano qui a Mendrisio certi personaggi), ricca di insegnamenti sul valore rivoluzionario dei giardini.
L'abbiamo invitato a Mendrisio, chissà che si riesca ad averlo tra noi per portare una boccata di aria fresca grazie alla sua filosofia che spinge all'azione pratica.
Tiziano
Giardini, luoghi di resistenza e di creazione
Intervista a Marco Martella
Possiamo definire la sua opera «E il giardino creò l’uomo» un manifesto a favore dei giardini e parchi intesi come luoghi dotati di unicità e pertanto luoghi di resistenza alla modernità, dominata dall’ideologia mercantilistica che banalizza e rende tutto uniforme?
Certamente. Ogni giardino è un luogo singolare, che non somiglia a nessun altro luogo. Ciò dipende, credo, dal fatto che un giardino è sempre un incontro unico tra l’uomo e il paesaggio. Sono convinto che la vocazione del giardino sia, da sempre, quella di fornire agli individui spazi in cui è possibile tentare altri modi di essere sulla terra, di coltivare e di produrre cibo per il corpo e per l’anima. Ma nel mondo contemporaneo, è venuta ad aggiungersi una nuova vocazione. Oggi chiediamo al giardino di rimettere equilibrio e benessere là dove la vita moderna crea squilibrio, sofferenza, impoverimento spirituale. Il giardino è diventato spazio di resistenza. Resistenza all’”omologazione”, per usare un’espressione cara a Pasolini, alla standardizzazione dei luoghi ma anche degli esseri umani che li abitano e della loro cultura. Un giardino, anche un semplice e banale giardinetto pubblico, puramente funzionale e apparentemente sprovvisto di poesia, non sarà mai un oggetto di consumo. E questo perché la materia prima che lo compone è la vita stessa: le piante, la luce, l’acqua, la terra. La vita è ciò che la nostra società dei consumi non riuscirà mai à trasformare in merce.
Perché ha scelto come periodo storico la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento? Le riflessioni sviluppate sono di una attualità assoluta: invitano ad agire prima che quei luoghi straordinari siano annientati …
L’Inghilterra della seconda metà dell’800, in cui la rivoluzione industriale era un fatto compiuto, è stata il primo paese a sperimentare quella che noi chiamamo modernità: il primato dell’economia, il materialismo e lo spirito mercantile, la standardizzazione del paesaggio e la perdita del senso del luogo, insomma il “disincanto del mondo” di cui parlò il sociologo tedesco Max Weber all’inizio del secolo scorso. Alcuni intellettuali e artisti inglesi di quel tempo (penso soprattutto a William Morris) erano del tutto consapevoli del carattere radicale di questa trasformazione della società e dell’impoverimento che essa rappresentava. Mi sembrava interessante assumere il punto di vista di un uomo di quel periodo, attento ai cambiamenti in atto, capace di analizzarli e di prevedere il loro aggravamento, e quindi di “avvertire” le generazioni future. E’ un modo per mettere in prospettiva il nostro presente da un punto di vista lontano ma non troppo. Infine, è nell’Inghilterra vittoriana che comincia a farsi strada l’idea di “giardino selvatico” (“wild garden”) – quasi cento anni prima del nostro giardino “ecologico”, “sostenibile”, “in movimento” ecc...
Possiamo dire che il giardino selvatico assume un ruolo salvifico non solo perché si contrappone, con i suoi valori specifici, ai caratteri distruttori della nostra civiltà (consumo, velocità, massificazione, omologazione), ma anche perché i giardini sono luoghi spirituali?
Il giardino selvatico, in cui il giardiniere rinuncia a una parte (una buona parte) del suo potere sulla natura che lo circonda, ci rimette in contatto immediato con le energie all’opera nel mondo, con un’immanenza che possiamo definire, senza necessariamente fare appello a una religione, come “sacro”. E ci rimette al nostro posto come elementi di un ecosistema, vale a dire di un insieme di forze vive e che interagiscono, in un dialogo costantemente rinnovato con la terra. Il giardino selvatico ci offre oggi più che mai la possibilità di unavera e propria rivoluzione culturale perché sovverte i valori della civilità occidentale moderna, quella in cui, come affermava Cartesio, l’uomo è “signore e possessore della natura” e di cui possiamo osservare oggi i risultati catastrofici.
Lei sostiene (giustamente) che l’arte dei giardini ha come sola regola il rispetto del luogo in cui opera, poiché il giardino «possiede una storia in cui abbiamo il dovere di entrare in punta di piedi». Ogni luogo ha un genius loci da rispettare. Come riconoscerlo? Come farlo rispettare?
Per riconoscerlo bisogna prendere il tempo di guardare e di aspettare che le risposte arrivino. Perché arrivano sempre. All’inizo del 700 il grande poeta inglese Alexander Pope, che aveva creato un parco nella sua residenza di Twickenham, scrisse, in un’epistola rivolta ai suoi colleghi amanti dei giardini: “Per ogni cosa consultate il genio del luogo...” C’è un tempo dell’azione per il giardiniere ma c’è anche un tempo, forse più cruciale, in cui deve aprirsi, quasi passivamente, al giardino e lasciare che questo gli parli, gli dica cosa fare, di cosa ha bisogno. Credo che per un giardiniere orientale tutto ciò sia facile da comprendere, una pratica quotidiana. Ma forse chiunque si dedichi al giardino selvatico oggi ha accesso a questa esperienza. L’importante, io credo, è far prova di umilità oltre che di pazienza. Quell’umiltà che manca nei grandi progetti territoriali, almeno qui in Francia.
«Il bisogno di vivere in un mondo provvisto di significato, capace di esprimere il vero, intimo spirito del luogo e quello della comunità umana che lo abita» è un bisogno sentito da moltissime persone. Eppure nel mondo occidentale i luoghi sono travolti dall’ideologia utilitaristica che li sostituisce con spazi funzionali. Come fermare una tendenza sempre più presente costituita dalla sostituzione dei giardini con «parchi urbani» ridotti, al di là della retorica delle autorità che li realizzano, a semplici spazi artificiali asettici?
Credo che ognuno possa contribuire a modo suo. Scrivendo, facendo giardini (e non “spazi verdi”), lottando, quando è necessario, per proteggere i luoghi “veri”, i giardini che possiedono una storia, una poesia, spiegando che vanno salvaguardati anche se possiedono uno scarso valore economico, come luoghi della memoria colletiva, come luoghi in cui l’uomo-massa ridiventa individuo grazie al rapporto con la natura... Ricordando che questi giardini sono ci sono necessari anche se sembrano superflui e che possiedono un ruolo educativo alla portata di tutti, come ci ha spiegato anni fa il filosofo Rosario Assunto. In un’epoca in cui il nostro rapporto al mondo si fa sempre più astratto (penso ovviamente a internet, ai social network, all’onnipresenza delle immagini, al nomadismo contemporaneo) e in cui i ritmi di vita e di lavoro ci allontanano dalla realtà immediata, la presenza dei giardini diventa vitale. Forse i politici, gli urbanisti, coloro che si occupano di assetto del territorio finiranno per comprenderlo e per rispondere a questo bisogno degli uomini, di cui spesso non ci rendiamo neppure conto. Ma non possiamo aspettare i politici. Forse i cambiamenti importanti, in una civiltà, non scendono mai veramente dall’alto. Si fanno dal basso, o perlomeno cominciano dal basso. Insomma, possiamo tutti – giardinieri, paesaggisti, vivaisti, scrittori, giornalisti, attori politici – contribuire a ricostruire una cultura del giardino e a diffonderla.
Nel Novecento, in particolare dopo la II Guerra Mondiale, vi è stata una scomparsa fisica di molti giardini causata soprattutto dall’urbanizzazione e l’arte dei giardini ha conosciuto – o almeno così è sembrato - un declino a livello di committenza e in generale di società. Quali le cause? Negli ultimi decenni questa tendenza negativa sembra essere mutata grazie agli approfondimenti teorici e alle battaglie culturali condotti da eminenti studiosi – per esempio Grimal in Francia, Assunto in Italia – e da associazioni – l’ICOMOS che ha elaborato la Carta dei giardini storici, per esempio –, che si sono opposti a questo declino. Sono nati anche corsi specifici nelle università. È corretta questa percezione? È in atto un cambiamento nei cittadini e in parte anche nelle autorità politiche?
A volte mi pare di sì. C’è ora une certa coscienza della necesità di proteggere i giardini storici, ad esempio, di reintrodurre la natura nelle città, di ricreare un legame tra città e campagna. In certi momenti in cui sono meno ottimista mi sembra che questi cambiamenti siano solo apparenti, un modo per “salvare la faccia”, se posso esprimermi così. Un po’ come lo “sviluppo sostenibile”, che, anche se nato da buone intenzioni, è diventato un modo per limitare i danni del nostro sistema economico distruttivo, senza rimetterne in discussione i fondamenti. Il nostro sistema di vita è sempre più distruttivo rispetto all’ambiente ma abbiamo la coscienza a posto perché ora creiamo corridoi ecologici, zone naturali protette, eco-quartieri e così via. Io credo piuttosto che sia necessaria quella rivoluzione culturale a cui accennvo poco fa, che implica un vero ripensamento del nostro rapporto al mondo, capace di andare oltre l’opposizione natura/cultura. E’ all’interno di questa trasformazione che potremo ritrovare il giardino perduto.
Vi è però un pericolo rappresentato dall’imporsi degli «spazi verdi» di architetti e pianificatori, spesso privi di cultura storica, paesaggistica e botanica. Come contrastare questa tendenza altrettanto distruttiva della speculazione edilizia? Inoltre: città e natura: realtà conciliabili?
E’ una questione complessa. Credo che la città, almeno nella cultura occidentale, si sia costituita come spazio anti-naturale, luogo puramente artificiale. Tuttavia, se si pensa ai boschi sacri dei romani, vale a dire quei boschi primitivi che venivano lasciati intatti e consacrati alle divinità, a volte nel cuore stesso delle città, ci si rende conto che il rapporto città/natura è assai più complesso. Per gli antichi preservare questi spazi di natura selvaggia era vitale. La città ne aveva bisogno perché permettevano di mantenere vivo il legame con il sacro, sempre legato al selvatico, all’energia pura della natura. Salvaguardare questi boschi era quindi una garanzia per il futuro della stessa civiltà. Mi pare che dovremmo ispirarci a questa saggezza, per quanto sia difficile, oggi, recuperare la visione sacra del mondo che la modernità “disincantata” ci ha sottratto. Insomma non dovremmo limitarci a creare nuovi “spazi verdi, “polmoni verdi”, corridoi ecologici” ecc. nelle città. Anche qui, occorre tornare all’idea del giardino come luogo che permette di conciliare ciò che appare inconciliabile e di superare la dicotomia natura-cultura.
Quali argomenti userebbe per convincere un’autorità politica a investire risorse finanziarie nella tutela e nella valorizzazione di parchi e giardini storici?
I giardini sono luogo della memoria comune, di benessere ma anche, come dicevo, di educazione estetica. E’ in questa loro dimensione che possono interessare le autorità politiche, gli enti locali ecc. Credo, invece, che rendere questi luoghi “interessanti” per le autorità politiche perché dotati di un valore economico (turismo, attrattività del territorio, rilancio dell’economia locale...) sia un errore. I giardini storici non vanno snaturati, allontanati dalla loro vocazione originaria, si rischia di privarli, a termine, della loro bellezza. Penso a Versailles, per esempio, ma anche a Villa d’Este. Cosa resta della loro poesia quando sono invasi da centinaia di turisti, quando è difficile ritrovare il silenzio propizio alla contemplazione, all’incontro con il genius loci? Ma fino a che punto le autorità sono sensibili a questi argomenti, a investimenti che non implicano né risultati economici né effetti immediati in termine d’immagine? E tuttavia, dobbiamo continuare a tentare di convincere...